La storia di Sante Amonti boxeur galantuomo che odiava i pugni

22.03.2013 21:00

IL PERSONAGGIO DALL'ESORDIO A SOLI 19 ANNI FINO AL RACCONTO DELLA LEGGENDARIA SFIDA DEL '64 CON FLOYD PATTERSON, L'UOMO CHE COMBATTÈ CONTRO CASSIUS CLAY
La storia di Amonti boxeur galantuomo che odiava i pugni
Oggi ha 75 anni: «Primo, non prenderle»

«La vuole sapere una cosa? Io non so cosa sia il mal di testa». Agita le mani, mentre lo dice - mani grandi, mani senza fine; mani che hanno scritto pagine indelebili del pugilato italiano e non solo. Mani ruvide, scoscese e solide come rupi. «Queste, invece, mi fanno male. Più che altro quando cambia il tempo. Lo vede il pollice, com'è deformato? Si figuri che spesso, dopo un incontro, per togliermi i guantoni me li dovevano tagliare. Le avevo sempre gonfie».
L'uomo col barometro nelle nocche e i guantoni sempre stretti alla fine di ogni battaglia, di battaglie ne ha fatte 69, ne ha perse 9 e solo 2 volte è andato schiena a terra. Si chiama Santo Amonti. «Chiamarmi Sante fu un'invenzione del mio procuratore, Bruno Zambarbieri detto Rafa. Fu il manager di Carnera». Sante o Santo lo si voglia chiamare, i fatti parlano da sé: il più giovane professionista in Europa della sua epoca (debuttò a 19 anni, pochi mesi prima del varo della legge che portò il limite a 21), con 14 incontri nel primo anno di attività e 16 nel secondo. Uno schiacciasassi. «Allora era così, si combatteva molto. Quando ci portavano all'estero facevamo 4 o 5 incontri a settimana, e nei tornei regionali almeno uno a sera. Ma mi guardi: non mi sono mai rotto un sopracciglio. Mia moglie non mi ha mai visto con un occhio nero - meglio così, non era contentissima del fatto che io tirassi di boxe. Il fatto è che i pugni non mi piacevano e il mio motto era: primo, non prenderle. Ero veloce, tecnico. Coi bestioni che mi trovavo davanti erano qualità utilissime».


Bestioni sì. Perché nella sua carriera, vissuta tra pesi medio-massimi e massimi, Sante si è trovato di fronte autentici colossi del pugilato mondiale. «L'incontro più duro? Non saprei, ma di certo il colpo più doloroso me l'ha dato Karl Mildenberger, 17 ottobre 1964. Sono andato giù al primo round dopo un montante al fegato. La testa mi diceva di rialzarmi, ma le gambe non le sentivo più». Ha il volto sereno, Amonti, mentre racconta. Il collo forte, il naso un po' accartocciato, lo sguardo limpido di chi ha due certezze. La prima: «Sul ring ci sapevo stare». La seconda: «Il mio match cominciava quando mi dicevano il nome dell'avversario. Mi documentavo, sapevo tutto. Il giorno della pesata guardavo come camminava e capivo se era veloce o no. Lo osservavo: mento lungo, per esempio, voleva dire che non avrebbe saputo tenere i colpi».

I ricordi sono molti, ma Amonti non è aggrappato al passato. Non ha una foto, nessun cimelio, il più delle volte non ricorda con precisione nemmeno la data dei match. Se gli si chiede ragione di questa distanza emotiva dal passato, guarda in terra e sorride. «Ho fatto un mestiere come un altro, dovrei passare la vita che a lucidare vecchi trofei?» dice smitizzando il suo curriculum e la sua storia. Ma l'incontro che gli ha fatto svoltare la carriera, quello sì, è ben impresso nella mente. «Fu contro Eric Schoppner. 1959. Io ero via militare, facevo il paracadutista. Senza avere alle spalle nemmeno un giorno di allenamento ma solo una settimana di quasi digiuno per stare nel peso, sono partito in treno da Napoli e sono arrivato a Dortmund per l'incontro. Mi sono detto: se rinuncio a questo match, come posso essere sicuro di avere altre chance più importanti? Be', ho perso ai punti. Ma lui ha fatto quindici giorni di ospedale».
Poi, nel 1962, vincendo, incontrò allo stadio Rigamonti Brian London, ossia l'uomo che combatté per il titolo contro Cassius Clay, e nel 1964 sfidò Floyd Patterson, il più giovane campione dei pesi massimi. Quindi, la Quercia di Gussago che si trovò davanti Rocky Marciano come secondo di un suo avversario e ancora adesso ammette: «So di tutto di Marciano, mi interroghi pure», confessa: «La boxe mi ha cambiato la vita. Mi ha insegnato a stare al mondo. Quando ho cominciato non ero tanto convinto, diciamo che mi ci sono trovato. Mi allenavo alla Mariani, la sede era a Roncadelle in una stanzetta dove facevano catechismo ai ragazzini. C'erano i ganci nelle pareti e si tiravano quattro corde. Ricordo che durante lo sparring bisognava fare attenzione o si picchiavano testate contro il muro. Mi sono ritirato nel 1968. Quando non hai più voglia di andare in palestra, vuol dire che hai finito».
Poi un momento di vera commozione, ricordando Tiberio Mitri. «Era venuto a trovarmi, giù di morale. È stato qui un paio di giorni ma era sbandato, diceva che non aveva più nessun affetto. Poi ci siamo salutati. Dopo pochi giorni si è buttato sotto un treno».
 

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