Toccante umanissima testimonianza «Come un libro aperto»

08.03.2013 15:50

 

Di Eugenio Fontana

Sono stato invitato a presentare, alla biblioteca di Pisogne, il volumetto di Chiara  Almici (Come un libro aperto, Edizioni Valgrigna, Esine 2013). Cosa che farò molto volentieri ma anche con una grande trepidazione per le fortissime emozioni che ogni singola pagina ha saputo destare, per il timore di non essere all’altezza dei pensieri ed anzi del «vissuto» raccontato con disarmante sincerità ed in uno stile limpido, trasparente, essenziale, vero: di quella verità che non è categoria filosofica ma segno di vita autentica quand’anche e soprattutto allorché essa è segnata dal dolore, rigata e irrorata da tante lacrime, costellata di sconfitte e di riprese, di immenso tremore e di una speranza che sembra varcare i limiti normali delle forze umane.

«La linea di confine»

Chiara Almici è nata e cresciuta in una piccola frazione di Pisogne, Pontasio, in una splendida famiglia che sarà uno dei punti di forza per uscire dalla sua malattia, è stata brillante studentessa all’Istituto Ivan Piana di Lovere (nonostante un cinque meno in un compito di matematica che la fece soffrire molto), ragazza piena di gioia e di luce, avvolta dal mondo bellissimo dell’amicizia (e tra le amiche del cuore è ricordata la compagna schiantatasi in un incidente stradale e che attraversò tutto il paese avvolta in una bara bianca «come fosse avvolta in un vestito di sposa»). Nell’amicizia il seme purissimo dell’amore, ove ogni cosa è sogno e raggio sul futuro. Chiara Almici, poco più che ventenne e da poco sposata, da poco madre incinta che tuttavia perde la sua creatura, non si sa né come né perché, ad un certo punto viene investita e travolta da un uragano che si chiama genericamente pazzia e al quale la scienza ha dato il nome di borderline, ossia «linea di confine», muro sul quale l’emozionale si scatena in modo eccessivo e incontrollabile, così da distruggere non solo certezze ma persino la dimensione quotidianamente percepita della realtà al cui posto subentrano incubi, paure, allucinazioni.

Dentro una settantina di dense e limpidissime paginette viene raccontata la storia personale di chi purtroppo ha cercato di andare oltre la linea di confine anche con tentativi di suicidio. Fu lungo il calvario percorso: visite mediche, cure farmacologiche, assistenza di psicologi e di psichiatri, ricoveri in cliniche specializzate (ben sette ricoveri), conoscenza di altre vite straziate. E finalmente, dopo l’ultimo ricovero, il ritorno dal confine della morte sui confini della vita. Il libretto si chiude con la testimonianza, anch’essa toccante, della madre. Quando infatti accompagna Chiara in quello che sarà l’ultimo ricovero, ricorda e scrive che le si stringeva il cuore vedendo nello specchietto retrovisore sua figlia dietro il cancello, la sua mano salutare, il suo timido sorriso: forte la voglia di tornare indietro, riprendere Chiara fra le braccia e rassicurarla che questa volta sarebbe andato tutto bene. «Passarono le quattro settimane di degenza previste dalla clinica e arrivò il momento in cui potei andare a prendere Chiara. Quando si aprirono i cancelli della clinica, la vidi corrermi incontro sorridente, serena e finalmente  rividi nei suoi occhi, dopo tanto tempo, la gioia di vivere. Una volta uscite, quando i cancelli si chiusero, questa volta riguardai nello specchietto retrovisore e non vidi più la mia Chiara salutarmi, lei era dietro di me che mi sorrideva.» E il sorriso liberatorio di questa ragazza è anche il sorriso liberatorio per lettore nel quale (o almeno in me) nasce il desiderio struggente di correre incontro a Chiara e di abbracciarla.

La casa, i genitori, la famiglia

Ma in questa storia così vera c’è qualcosa di più, molto di più, di una autobiografia del dolore. C’è - mi sia concesso questo inciso professorale - una scrittura essenziale, letterariamente ben organizzata, una scansione del racconto sapiente, quasi un montaggio cinematografico. Ma non è solo una questione di stile, se è vero, come è vero, che lo stile è l’immagine diretta della nostra personalità: lo stile vero è sempre stile di vita, della propria irripetibile vita.

Ma nella limpida veste letteraria o stilistica che cattura immediatamente il lettore, abolendo ogni confine o distanza, ci sta la sostanza del racconto, o, forse meglio, della testimonianza. Che cosa ha spinto Chiara Almici ad aprire il libro che per anni era rimasto chiuso nel tunnel della malattia? Si noti che il libro viene aperto o riaperto per riprendere il colloquio con sua madre e con quel papà che Chiara riconosce meraviglioso e che ha «sempre amato incondizionatamente». E a modo loro sono state meravigliose le persone incontrate nel percorso della malattia, avvolte nel loro bianco letto di dolore e di angoscia, di timore e di speranza, «persone a volte più sensibili di altre e con un gran bisogno d’aiuto.» Come non ricordare quella «bella signora», vicina di letto, straziata anche per aver perduto una figlia divorata dal cancro?

Nelle traversie di Chiara sempre appare all’orizzonte un punto fermo : la sua casa, i suoi genitori, la sua famiglia. Ed è stato davvero esemplare il comportamento di questa famiglia nelle tappe dolorose passando da un ricovero all’altro. All’origine dello scatenarsi della tentazione di fuggire dalla clinica vi è sempre in Chiara il pensiero di un ritorno alla «grande tavola imbandita con la mia famiglia», per essere «libera di poter stare con le persone amate».

Infine c’è un altro aspetto del libro che vorrei evidenziare. Chiara mai e poi mai ha voluto dare messaggi, impartire lezioni, moraleggiare su questo o quell’aspetto della nostra società. Mai si è avventurata in giudizi sulla famiglia, sulle istituzioni, sulle persone. Lei è andata alla sorgente della sua malattia. L’ha colta nel generarsi improvviso, ne ha ripercorso le tappe, in un rapporto esclusivamente spirituale. Ed è questo aggettivo che conferisce al libro la sua alta dignità e starei per dire anche la sua poesia intesa quale disfarsi e farsi della vita. Il volto di Chiara, presente nel risvolto di copertina, è presente drammaticamente ed intensamente anche nel ritratto che ne ha fatto Andreia Gosio:  pure questo è segno di un dialogo ancora una volta spirituale.

Chiara Almici non ha aperto o riaperto un libro, ha aperto e riaperto il libro della sua vita.

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